Riflessioni sull’inserimento lavorativo
delle persone disabili
di: Mariano Brasioli
28/06/2005
“Normalmente” le persone che
hanno dei deficit motori, intellettivi, sensoriali vengono giudicati
per questa loro apparenza: dei “menomati”,
persone cioè che hanno qualcosa in meno. Tutt’al più,
si parla di potenzialità residue. Ma residue rispetto
a cosa?
Tutti abbiamo delle potenzialità; allora sarebbe
importante capire quali siano le potenzialità e valorizzarle.
Ecco, quindi il primo aspetto: tutti hanno un qualche problema.
Parlando di lavoro, credo che dobbiamo immaginare uno scenario di
maggiore flessibilità. se uno ha delle abilità spendibili,
pur in presenza di una qualche limitazione, l’interfaccia
sta nella tecnologia che quindi minimizza le differenze, seppur
con qualche difficoltà (per lo più legate ai tempi
ed ai ritmi personali). Molte mansioni oggi beneficiano di forti
apporti compensativi quasi protesici.
Credo, allora, che il vero problema sia di coniugare il diritto
sacrosanto di tutti al lavoro con le esigenze aziendali in termini
di produttività.
E’ naturale che la mission dell’imprenditore sia quella
di produrre (mobili, scarpe e così via), per cui già
la parola disabilità, menomazione, deficit, incapacità
viene vissuta in termini antitetici all’idea stessa di raggiungere
gli obiettivi imprenditoriali, tanto più se l’attività
è di tipo manuale anche se, per esempio, in lavori pesanti
o ripetitivi, quelli che nessuno vuole più fare, come chiudere
delle scatole, le piccole aziende potrebbero utilmente impiegare
i disabili mentali: gli unici disposti a fare lo stesso gesto cioè
piegare il bordo di un scatola per tutto il giorno.
Sono d’accordo con Davide Cervellin quando dice "Un
imprenditore ha come missione sociale quella di ridistribuire il
reddito attraverso il lavoro, non quella di fare assistenzialismo”
e che “Non si può obbligare un'azienda, tanto più
se piccola, a occupare un invalido”, perché “Un
imprenditore deve offrire quel lavoro alla persona che ha le competenze
per quel lavoro, magari è proprio un disabile, ma deve essere
in grado di coprire quel posto, quell'incarico. Un cieco, per esempio,
non deve essere immaginato esclusivamente come centralinista, può
invece coprire tante altre posizioni purché lo si metta in
grado, attraverso le tecnologie, di fare, di sviluppare le sue capacità
nel migliore dei modi, di sopperire alla sua mancanza”.
Ma anche in presenza di fasi di produzione sempre più delegate
ai processi automatici, con delle modalità che vedono l’uomo
in posizione meno centrale di un tempo potremmo impiegare disabili
psichici e degli intellettivi, con buon successo (e le esperienze
non mancano).
Se pensiamo invece a quella che Davide Cervellin ben definisce la
mentedopera, comprendiamo bene come si stia parlando
di attività conciliabilissime alla stragrande maggioranza
delle abilità possedute dalle persone con deficit motorio
e sensoriale.
Ma allora il problema, qual è?
Il problema è di far capire all’imprenditore che le
persone così dette disabili sono spendibili rispetto all’obiettivo
aziendale come gli altri oppure spendibili in maniera diversa perché
una diversità c’è, ma questa diversità
potrebbe diventare un elemento positivo per la riorganizzazione
del processo lavorativo per far lavorare in definitiva meglio, anche
gli altri (è il caso dell’implementazione tecnologico-informatica)
che, nell’accontentare un diverso, può diventare un
elemento positivo per migliorare l’efficienza aziendale. L’esempio
classico è quello dell’adeguamento del posto di lavoro
per chi ha un deficit visivo che, rendendo necessario l’informatizzazione
riduce le carte e conseguentemente è un qualcosa che diventa
molto funzionale per l’attività aziendale.
Detto questo, l’ interesse suscitato dall’articolo 2
della legge 68, circa la possibilità di accompagnare la persona
che ha delle necessità particolari a trovare, in relazione
alle sue capacità, il lavoro giusto che risponde agli interessi,
alla mission dell’impresa è andato purtroppo deluso.
L’articolo 2 della legge 68, relativo al cosiddetto inserimento
mirato, è stato soffocato dal prevalere delle logiche del
collocamento obbligatorio, certamente percepito come vessatorio
dal mondo imprenditoriale ed estraneo alla mission aziendale, radicando
nell’imprenditoria l’idea che vede le persone disabili
come una tassa ed un peso.
Volendo modificare quest’idea, con l’aiuto
dei SIL, si dovrà cambiare l’approccio
che pur partendo da criteri di accertamento dell’invalidità
per percentuali, presenti alle aziende non
disabilità, cioè condizioni antitetiche all’idea
di lavoro, ma le potenzialità, le residualità
attive, positive, cioè ciò che risulta effettivamente
di interesse per un’impresa.
Altro elemento fondamentale è quello della formazione: la
formazione della persona con deficit dovrebbe avvenire all’interno
dei binari generali della formazione; il processo di integrazione
lavorativa deve partire, infatti, dallo stare insieme
durante la formazione. Noi rifiutiamo l’idea che,
dopo la scuola dell’obbligo, i ragazzi disabili siano parcheggiati
in contenitori improduttivi e frustranti che, ancorché talvolta
ben gestiti, diventano “nuove riserve indiane” per disabili.
L’esperienza, invece, insegna che tanto prima comincia la
socializzazione, tanto più è facile arrivare al successo
nel momento lavorativo.
Vengano fatti degli interventi specialistici, prima dell’inserimento
in un corso professionale, in modo tale che già durante la
formazione, incominci l’integrazione, perché non
è possibile parlare di inserimento mirato dei giovani
con difficoltà se prima la scolarizzazione, non ha
svolto con efficacia il suo compito.
Troppo sovente accade di giovani compatiti, pietiti e promossi perché
disabili che arrivano a diciotto anni e non hanno avuto la possibilità
di capire quali erano le loro potenzialità. Diventa difficile,
poi, immaginare un loro coinvolgimento laddove è possibile.
La scuola ha delle grossissime responsabilità in questo senso.
Fra i problemi più frequentemente riscontrabili ci sono quelli
riferibili ai ritmi che non sono i ritmi proponibili per tutti gli
altri, né in termini di tempo, né in termini di consecutività
dei momenti di lavoro. Alcuni hanno bisogno di lavorare per mezzora,
venti minuti, poi hanno bisogno di pausa. Lo stesso vale per i livelli
attentivi spesso ridotti. Per queste persone immaginare di incardinare
il rapporto di lavoro secondo gli schematismi tradizionali, cioè
con un orario fisso, anche se ridotto, risulta non sempre possibile.
Altro problema, quello dei trasporti; non sempre disponibili e complicato
dalla dislocazione ‘sparpagliata’ delle aziende.
Ad entrambi questi problemi una possibile risposta , almeno per
le mentidopera, potrebbe essere rappresentata dal telelavoro (almeno
per chi non ha deficit intellettivi), il quale non ha le rigidità
tradizionali che non sono comprensibili al datore di lavoro, né
sono, di interesse alla stessa persona.
Infine una considerazione: la legge 68 prima ancora che
creare occupazione per i disabili ha senz’altro creato
occupazione per molti altri. Di per sé non è
male dal momento che il lavoro è importante per tutti, ma
non è accettabile che le Istituzioni e le strutture preposte
all’attuazione delle normative siano autoreferenziali o nel
migliore dei casi ostacolino le procedure che per quanto complesse
siano si attivano in tempi così lunghi da ostacolarne una
efficace attuazione. Non è accettabile che aziende del territorio,
che hanno dato la disponibilità ad accogliere e in prospettiva
ad assumere alcuni ragazzi, per le lungaggini burocratiche non siano,
dopo mesi e mesi, in grado di concretizzare alcun progetto. Tutto
questo sfinisce gli interlocutori scoraggiandoli.
La valutazione preliminare delle abilità di ciascun candidato,
invece, pretende l’adozione di un sistema snello, dinamico,
fatto "nel tempo" e a più voci, tra gli attori
previsti dalla legge, tutti impegnati a rassicurare gli
imprenditori, prima e durante l’inserimento, ma chiedendo
loro l’apertura di una linea di credito.
E, a questo proposito, vorrei venisse affermato un elemento di civiltà:
se uno ha già un’invalidità perché percepisce
l’indennità di accompagnamento, la pensione, per quale
ragione continuare a chiedere certificazioni, a sottoporre ad umilianti
visite persone visite più volte nello stesso ufficio? Se
cambia le motivazione la certificazione acquisita dovrebbe rimanere
valida. Venga automatizzata l’anagrafe dei disabili!
Poniamo finalmente il focus sulla persona e non sulla procedura!
Ecco, allora, che la Nostra giovane Associazione – preso atto
di queste rilevanti difficoltà – ha deciso di puntare
preliminarmente sull’attivazione di “borse lavoro”,
un istituto misconosciuto (tanto da essere puntualmente confuso
dai media con “borse di studio”) ma conveniente per
l’impresa (essendo ogni onere a carico dei Comuni) ed utile
per i nostri ragazzi per l’avviamento alla socializzazione
ed al lavoro. Le ben 9(nove) fin qui avviate sembrano darci ragione.
E a chi solleva l’obiezione della debole remunerazione e della
difficoltà permanente circa il successivo definitivo impiego,
replichiamo che poco è meglio di niente e, comunque, la “borsa”
costituisce un’ottima vetrina ed in ogni caso una opportunità,
certamente migliore del “parcheggio” post formativo
senza prospettive.
Questo non esclude la possibilità di lavorare in forme diverse:
stiamo infatti pensando di attivare percorsi per libere intraprese
o di lavorare come persone organizzate in ditte individuali. Se
poi questo sia riferibile solo ad un’élite, mi pare
di poco conto e in ogni caso daremo a queste persone la possibilità
di lavorare.
D’altra parte fintantoché, come oggi accade, se
un’azienda assume un disabile che sia veramente disabile
e che ha necessità di adattamento di posto di lavoro, questa
azienda ha un costo in più rispetto all’assunzione
di una persona tra virgolette normale, mi pare ci sia poco
da stare allegri.
Perché? Perché i fondi previsti sono esigui, perché
i soldi per fare gli adattamenti dei posti di lavoro non ci sono,
perché le aziende che hanno fatto un atto di fede in tal
senso sono state deluse.
E allora che cosa succede? Succede che gran parte delle
aziende stanno cercando di assumere quelli che sono poco disabili.
Parliamoci chiaramente quelli che hanno la percentuale minima,
quelli per i quali non sono necessari costi aggiuntivi, o i costi
aggiuntivi sono molto, molto bassi.
In definitiva, la “borsa lavoro” può dare agli
imprenditori la possibilità di sperimentare senza vincoli
le potenzialità della persona disabile e quanto sia effettivamente
di interesse per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Solo
dopo e solo se effettivamente i contributi che riducono il maggior
costo per averlo assunto siano effettivi, si potrà realizzare
il “collocamento mirato”.
Ultimissima considerazione: se è vero che è meglio
inserire nel lavoro un disabile, al 60 come anche al 100 per cento,
piuttosto che assisterlo in un istituto o nella sua abitazione non
possiamo dimenticare che l’integrazione sociale ed il lavoro,
sono un diritto per ciascun cittadino.
Per questo dobbiamo abbandonare gli approcci generati dal buonismo,
dalla compassione, della funzione indennizzatoria dell’inserimento
ed assumerci ciascuno per la propria parte, il compito di affrontare
con coerenza e chiarezza l'impegno di far partecipare il più
alto numero possibile di persone ad un progetto di crescita e di
vita, di vita attiva utile anche allo sviluppo del paese.
In definitiva, in questa fase, per realizzare il tanto auspicato
"inserimento mirato o meglio personalizzato" germogliante
dall’innovazione legislativa può essere utile –
talvolta necessario - il ruolo dell’Associazionismo consapevole
ed attivo.
La scommessa è che queste esperienze diventino cultura e
- alla lunga - diventino pratica quotidiana.
Ritorna all'angolo delle riflessioni