“Diversi ma uguali”o “uguali
ma diversi”
di: Mariano Brasioli
La nascita di una nuova Associazione (un’altra??
Perché?).
E’ un'occasione per interrogarsi e per prendere coscienza
di una realtà verso la quale, quando va bene, si ha un atteggiamento
distratto e superficiale. E' opportuno, quindi, avviare una riflessione
per meglio comprendere il complesso mondo dei “divers-abili”
o meglio dei diversamente abili, come si dice adesso (ed
era ora!).
La nostra società, sempre più attribuisce valore alla
perfezione, al successo e pretende che la persona venga valutata
in base alle sue capacità di fornire prestazioni finalizzate
al profitto, in un'ottica di competizione e di estremo individualismo.
Quindi chi non è adeguatamente efficiente disturba, viene
considerato un peso, in definitiva viene allontanato o relegato.
Perché in questa dimensione riesce difficile a considerare
ricca di significato una vita condizionata dalla malattia o segnata
dall'età avanzata o limitata nella sua autonomia.
Per modificare questa visione della vita è necessario un
cambiamento di mentalità, mutuabile del resto dalle nostre
stesse radici culturali e capire che ogni persona è
unica, irripetibile e originale nel modo di essere e di agire e
proprio perciò è portatrice di valori e di progetti
anche se diversi dalle nostre aspettative. Ciascuno di noi è
una persona e in quanto tale è dotato di una “dignità”
che nessuno può alienare.
Bisogna capire che ciascuno, con la sua semplice esistenza,
vale molto più di ciò che sa o può fare o avere!
E dal momento che una nota distintiva della persona è l'individualità,
di fatto ciascuno è portatore di una propria originalità.
La persona diversamente abile accentua questo aspetto di diversità:
il deficit organico, mentale, psichico o sensoriale non intacca
l'originalità e l'individualità e diventa, quindi,
una nota positiva.
Certo le differenze vanno riconosciute per poterle
affrontare: non bisogna agire come se la disabilità non esistesse
perché significherebbe impedire l'individuazione
e la valorizzazione della specificità; tuttavia bisogna affrontare
la diversità come un valore e una ricchezza, un’opportunità.
Bisogna, quindi, liberare la persona diversamente abile dagli stilemi
e dai pregiudizi dei “normodotati gravi”! (“chi
sono i normo-dotati gravi?” – si chiedeva nel 2003
Claudio Imprudente – “Forse quelli
sicuri delle proprie abilità che non riconoscono quelle altrui
se non riflettono le proprie” .
Ecco, forse, individuato il maggior ostacolo ad ogni possibile sviluppo
ed affrancamento e questo vale per tutti!
In quest'ottica NON si può parlare di uno scambio di doni
tra la persona portatrice di handicap e la società. Né
la presenza del diversamente abile all'interno della società
(nonostante i numeri: si veda “Cifre che fanno riflettere”)
può diventare un richiamo all'attenzione per l'altro o sollecitare
la solidarietà, riflettendo sull'accettazione della propria
vita e di quella altrui, con tutte le potenzialità ma anche
i limiti. Qui non si tratta semplicemente del superamento delle
barriere architettoniche e dell'impegno per garanzie di natura sociale;
si tratta soprattutto di abbattere le barriere presenti nella nostra
mentalità.
In una società siffatta la persona, non solo il diversamente
abile, rischia l’impoverimento morale: il peggiore che esista.
Viceversa, l’attenzione e la solidarietà possono aiutare
ciascuno a diventare più tollerante, a ripensare al
valore della persona umana e alla qualità della vita per
costruire un mondo più abitabile per tutti. Basterebbe, del
resto, un “sano egoismo” per capire che tutti siamo
in difficoltà (chi sa fare tutto?). Tutti, in qualche modo,
siamo diversamente abili e nessuno può fare a meno degli
altri.
Questa consapevolezza ci illuminerebbe sul fatto
che la persona con “difficoltà” chiede accoglienza
e non pietismo, il rispetto per la dignità, l’opportunità
di mettere
a frutto la propria intelligenza e quelle capacità che, ancorché
residue (è il caso degli anziani), possono contribuire alla
crescita della società.
Accorgersi di questo, lasciarsi interpellare dai bisogni altrui,
cioè prendere coscienza, significa anche condividere le normali
condizioni di vita; quelle che consideriamo dignitose per noi.
Ecco, l’esigenza di “sensibilizzare
l’Opinione pubblica e costituire sull’argomento “diverse
abilità”, un momento incontro-confronto nel
quale allacciare nuove
relazioni partecipate, un luogo in cui sperimentare
tutte le intelligenze e le abilità”, (ma non
una nuova “riserva indiana”), in definitiva, è
stata la molla che ci ha spinti a costituirci in Associazione.
Cifre che fanno riflettere
Sono due milioni e 800 mila le persone con disabilità in
Italia. E il numero sale a 4 milioni e 400 mila, pari all'8,5% della
popolazione con più di sei ani, considerando i cittadini
con difficoltà a svolgere almeno un'attività della
vita quotidiana. Sono due milioni e 364 mila le famiglie con
un componente disabile. Di queste, solo 291 mila ricorrono ai
servizi di assistenza.
Questi i dati Istat illustrati nel marzo 2003 al Cnel, durante la
riunione congiunta dei gruppi di lavoro sulla condizione degli anziani
e sulla copertura dei rischi da non autosufficienza fisica.
La stragrande maggioranza dei disabili (2 milioni e 600 mila, il
5% della popolazione) non è autonoma nello svolgere almeno
un'attività quotidiana e vive in famiglia: le
donne sono quasi il doppio degli uomini (1 milione e 700 mila contro
900 mila) e il 75% è costituito da anziani. Altre 165 mila
persone sono confinate a letto o su una sedia a rotelle (2,1% della
popolazione): vive in queste condizioni il 25% degli anziani (900
mila).
Presentano difficoltà nel vestirsi, nel lavarsi, nel mangiare
e quindi necessitano dell'aiuto di qualcuno un milione e
555 mila persone (3% della popolazione), mentre la disabilità
nei movimenti riguarda 1 milione e 204 mila persone (2,2%) e quella
sensoriale (problemi nel sentire, vedere, parlare) 600 mila persone
(1%).
(da VITA - no profit on-line)
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